Guardare la mafia negli occhi, contro il silenzio di chi non vuole vedere

Articolo di Sofia Nardacchione

“Non possiamo permetterci di delegare la lotta alle organizzazioni mafiose alla sola magistratura e alle forze di polizia. Solo crescendo cittadini responsabili saremo in grado di essere impermeabili al radicamento delle mafie, che sono dittature che ci tolgono libertà”. Queste le parole di Francesco Ubertini, magnifico rettore dell’Università di Bologna, in apertura dell’incontro che si è tenuto il 20 ottobre 2017 nel Dipartimento di Scienze Giuridiche a Bologna.

L’incontro, organizzato dall’associazione Cortocircuito all’interno del progetto “ConCittadini” della Regione Emilia-Romagna, aveva lo scopo di approfondire come il comportamento di ciascuno di noi favorisca, direttamente o indirettamente, le mafie. Di questo ne devono tenere conto tutti, anche sul nostro territorio: lo ha ricordato anche Simonetta Saliera, presidente dell’Assemblea legislativa dell’Emilia-Romagna, che ha affermato che “la forza della nostra Regione è stata di non voler nascondere la polvere sotto al tappeto, di non far finta di niente e rafforzare gli antivirus necessari per contrastare il fenomeno”.

Così importantissimo è stato riuscire a fare in modo che il processo “Aemilia” si tenesse sul nostro territorio, prima a Bologna e poi a Reggio Emilia, e non in Calabria, come avevano chiesto gli avvocati difensori dei principali imputati del maxi-processo alla ‘ndrangheta emiliana.

Un processo di tale portata sul territorio ha fatto in modo che i tanti, troppi, che ancora continuavano a negare la presenza delle mafie in Emilia Romagna, non potessero che aprire – meglio tardi che mai – gli occhi. Professionisti in primis. Ed è proprio la categoria dei professionisti che compone una zona grigia pericolosissima.

“La ‘ndrangheta dà questa illusione – dice Elia Minari, autore del libro “Guardare la mafia negli occhi” – anche a professionisti emiliano-romagnoli: poter realizzare quei sogni che a tanti sembrano irraggiungibili. Come Roberta Tattini – commercialista bolognese condannato in primo e secondo grado nei riti abbreviati di Aemilia per concorso esterno in associazione mafiosa – che ostenta la sua ricchezza su Facebook. Ma tantissimi altri sono i casi. E’ difficile analizzare la realtà e approfondirla, perché quella emiliana è una realtà rarefatta, che va studiata in profondità”.

Ed andare in profondità è proprio quello che hanno fatto i ragazzi di Cortocircuito: “Siamo partiti da vicende semplici – continua Elia – con inchieste realizzate in prima persona, per approfondire meglio quella difficile linea che c’è tra legale e illegale”.

Spesso il confine tra legale e illegale è molto difficile da definire: lo dimostra anche il lavoro svolto da Giancarlo Caselli, con il processo Minotauro.
“La sottovalutazione, i ritardi – afferma l’ex magistrato Caselli presente all’iniziativa – sono endemici quando si parla di mafia e antimafia. Ci sono un’infinità di bis, quater: norme infilate sempre in ritardo quando c’è qualcosa che costringe a farlo: si parla spesso di “antimafia del giorno dopo”. Accanto a questa c’è un’attività di vero e proprio negazionismo: la mafia non esiste, chi parla di mafia diffama i nostri territori e parla male di gente per bene. Gli esempi in questo campo sono clamorosi: cardinali, politici, ma anche magistrati, già dal 1902. Con queste premesse storiche è difficile stupirsi se di mafie al centro e al nord per lunghissimo tempo non si è parlato. Non sono problemi solo di arretratezza culturale, ma sono problemi che hanno conseguenze importantissime anche sul piano giuridico”.

“Non serve stupirsi delle mafie al nord – continua Caselli -, bisogna aprire ombrelli per difendersi. E al nord la parola chiave è riciclaggio. Intreccio torbido della ‘ndrangheta con pezzi consistenti della pubblica amministrazione e della politica. Ma nessun ombrello, dopo i vari moniti, si è aperto per difendersi da questo. Il ceto politico che detiene il potere ha avuto sempre scarsissima consapevolezza di quello che avviene: quindi nessuna presa di posizione. Neanche a Torino, dove nel 1983 viene ucciso il magistrato Bruno Caccia: l’unico omicidio di un magistrato commesso dalla ‘ndrangheta e l’unico omicidio – non commesso all’interno di faide interne – al di fuori della Calabria. Il problema è rappresentato da ignoranza, impreparazione, miopia, distacco aristocratico, ma anche convenienza, insieme alla modalità silente di lavorare delle mafie al nord”.

“La ‘ndrangheta – continua Gaetano Paci, procuratore di Reggio Calabria – è un sistema straordinario nella sua capacità di persistere, nonostante le inchieste, i processi. La sua caratteristica principale è quella di esternalizzare la sua capacità, soprattutto imprenditoriale e relazionale. Così la ‘ndrangheta non ha necessità di manifestarsi, perché il suo volto è quello della normalità: quello di professionisti, imprenditori, purtroppo a volte anche forze dell’ordine. E ancora oggi la ‘ndrangheta è un interlocutore credibile e affidabile, economicamente molto ricercato perché in grado di offrire servizi”.

Rimarca il concetto anche Giuseppe Gennari, giudice del Tribunale di Milano dove si è occupato della maxi-inchiesta “Infinito”: “Elevatissima è la capacità della ‘ndrangheta di integrarsi nella società civile, di nascondersi”. Così anche in Lombardia c’è una “relazione di scambio tra il mondo dell’impresa e le organizzazioni mafiose, che permette a queste ultime di proliferare in un territorio che ancora si dice immune dal fenomeno”.

Il “decadimento etico delle professioni”, come lo definisce la professoressa dell’Università di Bologna Stefania Pellegrini è elevatissimo: c’è una vera e propria “compenetrazione organica dei professionisti che partecipano agli interessi delle organizzazioni mafiose perché traggono benefici economici”. Si tratta quindi, si chiede la Pellegrini, di concorso esterno o di vera e propria partecipazione dei professionisti all’associazione mafiosa?

In questo contesto, “l’unico strumento per favorire la conoscenza e il contrasto efficace delle mafie – afferma Valerio Giardina, comandante provinciale dei Carabinieri di Bologna – è la diffusione della cultura e dell’informazione, come stanno facendo Elia e i ragazzi di Cortocircuito.
Dobbiamo sviluppare questa conoscenza del fenomeno e disseminare gli anticorpi sul nostro territorio. Solo così si riesce a fare un investimento che permette alle forze di polizia e alla magistratura di sviluppare un’azione repressiva, che è semplicemente un farmaco che può rallentare l’influenza ma non la può debellare”.

La giornata si è conclusa nella Sala del Tricolore a Reggio Emilia con un bellissimo discorso del magistrato Marco Imperato, che parla del libro “Guardare la mafia negli occhi” e dell’impegno contro le mafie in Emilia Romagna: “Spesso in queste serate, in questi libri, in questi incontri cerchiamo risposte e soluzioni, ma in questo libro troverete soprattutto domande scomode e spero che da questo troviate voglia di fare altre domande. Credo che la vera ricchezza del libro e di questi ragazzi è la loro curiosità e ‘impertinenza’ nel pensare che non ci sono domande che è meglio non fare, situazioni in cui è meglio girarsi dall’altra parte. Come quando nostro figlio ci fa domande che ci mettono in difficoltà, così hanno fatto Elia e i ragazzi di Cortocircuito andando in giro per il territorio. Nel libro non troverete valutazioni, ma fatti reali, persone, luoghi: non si arriva a giudicare, all’opinione, allo slogan, come troppo spesso avviene oggi. Ed è questo che il lavoro di magistrato insegna: non dare giudizi, ma capire le persone”. E il magistrato Imperato riprende il tema affrontato la mattina: “tocca anche ai professionisti farsi domande, non fare il proprio lavoro tanto per fare: sono proprio queste persone che aprono le porte alle mafie. Noi dobbiamo porcelo seriamente questo problema. Una cosa che mi dà grande rabbia è vedere come sui media, nel dibattito pubblico, si conduce la notizia verso determinate situazioni, ad esempio come l’attenzione morbosa verso la cronaca nera”.

“Credo – prosegue Imperato – che le storie di Elia debbano interpellarci, farci capire che forse abbiamo fatto le domande sbagliate o ci siamo dimenticati di fare domande: lui ci ricorda di tornare a fare domande e alzare il nostro standard etico. Perché ci sono le interdittive, le condanne, le sentenze, ma demandare sempre e soltanto ai professionisti della giustizia la soluzione di queste vicende che invece hanno una dimensione cultura, etica e politica è sbagliata: fare domande domande scomode, cercare risposte, fare cittadinanza attiva è un esempio prezioso per tutti noi e le persone di questo territorio. E’ dal basso che si può invertire il trend e cambiare l’aria che si respira anche sui nostri territori”.