Che cos’è la mafia?

Di seguito una testimonianza semplice, ma secondo noi molto realistica e a tratti commovente, su ciò che chiamiamo mafia. L’articolo è stato scritto da una ragazza di origine siciliana. La Redazione di Cortocircuiuto


Quando ero bambina mi chiedevo spesso che cosa fosse. Alle scuole elementari la maestra ci propose una recita per la festa di fine anno: «Rappresenteremo “Il giorno della civetta“», così dopo aver letto un brano del romanzo di Sciascia, ci preparammo.

Sul palcoscenico fu allestito un bus di cartone; non mi ricordo che parte avessi io, un bambino faceva il tramviere, un altro il bigliettaio, un altro, lo ricordo chiaramente, il venditore di panelle. Il tram era fatto benissimo, di cartone e a grandezza naturale, da piccola mi sembrava così grande; mi sembrava addirittura in grado di proteggerci tutti, noi che invece eravamo soltanto dei bambini.  Colasberna fece per salire sull’autobus e ci rimase secco. Rimase steso per terra a causa di un colpo di pistola. Per il sangue utilizzammo del pomodoro ed in quel momento l’atmosfera divenne rarefatta e gelata. Colasberna cadde. Nessuno vide nulla. Il venditore di panelle si dileguò insieme agli altri. Ecco, per me, alle elementari la mafia era quella. Quella che, con paroloni, la maestra definiva, riassumendo,”omertà”.

Crescendo è stato veramente strano accorgersi che proprio io vivevo circondata da quella stessa rarefatta atmosfera. Certo, i giornali e la televisione ci facevano conoscere i grandi eventi: i quotidiani parlavano delle grandi stragi e nel loro piccolo i telegiornali locali ci bombardavano con le sparatorie del giorno. No, non abitavo nel Bronx, non ho mai assistito ad un regolamento di conti sotto casa mia, ma piano piano ho iniziato a rendermi conto di essere incapsulata in quella stessa bolla trasparente a pareti permeabili, che avvolgeva tutto e che poteva inglobare tutto. Non soltanto le cose, ma soprattutto le menti delle persone.

Una volta mia madre tornò a casa in lacrime: mio padre aveva subìto l’ennesima rapina e lei purtroppo era stata presente. Ero già grandicella e non era la prima volta che sentivo un racconto del genere. Spesso, in passato, mio padre aveva subito delle rapine, era quasi una prassi per chi aveva un attività, ma mia madre non era mai stata presente. Quella volta mi raccontò la scena dei ragazzotti usciti dalla sala giochi che avevano puntato una pistola alla testa a mio padre per farsi dare l’incasso del giorno. Mia madre si era sentita morire, ed io morivo con lei mentre mi raccontava. Eppure in strada nessuno vide nulla. Quella nebbiolina sottile offuscò ancora una volta le coscienze. Ho spesso ripensato a quella scena e nonostante io non l’abbia vissuta in prima persona, è come se dentro di me l’avessi vissuta innumerevoli volte. E risuona ancora la frase che mia madre ripete ancora adesso «Pi travagghiari cca ciaviri i cani attaccati» (trad.: Per lavorare qui devi avere i cani legati fuori, …qualcuno che ti protegga insomma).

Per molto tempo non ho più pensato a cosa fosse la mafia, come succede spesso quando le cose che hai sotto gli occhi cominciano piano piano a scomparire da sotto il tuo naso, perché diventano parte di te. Certo, i telegiornali locali ti facevano passare la voglia di accendere la televisione, il posteggiatore abusivo ti chiedevo un euro, ma non mi ponevo più tanto il problema. Percepivo tutto ciò come se fosse una normale parte del paesaggio.

Crescendo e non chiedendomi più cosa fosse la mafia mi sono ritrovata a percepirla in un modo più forte, in un modo che era stranamente velato ed esplicito allo stesso tempo. Mi rendevo conto che era li…nel modo di ragionare di molte persone a me vicine, addirittura care.

La mafia era li nella mentalità di quell’uomo che, spinto da buone intenzioni ma ammorbato da quella visione, mi spingeva ad accontentarmi… a trovare un lavoro qualsiasi, a fare la babysitter o a dare ripetizioni nonostante avessi studiato, nonostante avessi tanti sogni. La percepivo in quella donna che una volta mi raccontò di non aver denunciato il medico che non si era mosso per salvare un neonato in fin di vita: «Picchì non sai con che gente ti vai ammiscari» (trad. Perché non sai con che gente vai ad avere a che fare). La mia rabbia cresceva ogni giorno di più, ed insieme alla rabbia l’impotenza di non riuscire a fare nulla. La percepii chiaramente in me stessa quando, svolgendo il servizio civile, mi accorsi che nessun educatore aveva un titolo e che i ragazzi che dovevamo aiutare erano trattati come dei numeri, ammassati in camerate in condizioni igieniche pessime, mentre chi amministrava il tutto pensava soltanto al denaro. Ed io non avevo la forza di andare contro il sistema.

Ed infine la percepii in me stessa quando mi resi conto di non volere restare in Sicilia, perché non volevo che tutto ciò mi uccidesse dentro, non volevo che quel sistema facesse a brandelli ciò che era rimasto dei miei sogni e del mio essere fortemente idealista. Volevo trovare un posto dove sentirmi una persona, dove poter finalmente mettermi in gioco provando a lavorare, provando che ero capace di fare qualcosa. Forse la mia identità personale era troppo legata all’identità professionale, fatto sta che in uno slancio decisi di partire. Avevo voglia di poter sperare, di mettermi in gioco per quello che ero e non per chi conoscevo.

Sentivo fisicamente il bisogno di trovare uno spiraglio in quella coltre grigia, così decisi di abbandonare la Sicilia e tutto ciò che per me rappresentava: i miei amici, la mia famiglia, la mia terra..tutto tranne le mie radici. Ed eccomi qui, in una terra straniera che adesso a tratti mi trasmette calore e che sento un po’ più familiare, a discutere di mafia con delle persone, che in verità la mafia non l’hanno mai respirata ma che non sono velati da quei pregiudizi che in parte sono riusciti a velare anche me. Mi sorprendo a sorridere tra me e me delle tante visioni che ognuno di noi ha, di quello che definiamo mafia.

Ma la mafia, quella difficile da estirpare, per me non è tanto la strage di Capaci e l’uccisione di Falcone e Borsellino. Quello è un fatto grave ed eclatante, ma non è che la punta dell’iceberg.

Sapete cosa penso? Che per noi cittadini del Sud, la mafia è come un gas nervino. E’ nell’aria ma quasi non la si percepisce, è un qualcosa che c’è e nello stesso tempo non c’è. Non so come esprimere questo concetto a parole. La mafia è davvero come un gas nervino: è un modo di pensare, è nell’accontentarsi, è nel dare il voto in cambio di un pacco di pasta, è nel dover avere l’appoggio del politico o del sacerdote per trovare un lavoro, è nel non denunciare chi non fa il suo dovere. Dopo un po’ ti ci abitui, pensi che il sistema sia questo e che non si può fare niente e a quel punto o ci si lascia uccidere nel sonno o si cerca di respirare aria pulita. La mafia è nell’indifferenza. Ed è nel fuggire …forse.

C’è una parte di me, nascosta molto in profondità, che si sente in colpa per il fatto di aver scelto di respirare, di aver scelto una vita mia, piuttosto che una lotta contro il sistema in Sicilia. Una volta una persona mi ha detto che chi veramente tiene alla sua terra dovrebbe restare e cercare di far cambiare le cose. Mi sono sentita ferita da questa frase, forse perché a volte penso che quella persona ha ragione e che non ho avuto abbastanza coraggio. Alla fine ho egoisticamente scelto la mia vita, come tante altre persone. Rinunciando a vivere nella terra che mi ha vista nascere e crescere. Non ci sono morti, non ci sono stragi, ma vi posso assicurare che fa male. Eppure dentro di me le mie radici reclamano continuamente. Ogni volta che torno a trovare i miei e poi vado via dalla mia città natale mi si stringe il cuore. Perché quella è la mia Terra, è come se ci fosse un cordone ombelicale..ed allora in modo così contraddittorio io quella terra la odio ma la amo anche tanto. Di un amore viscerale.

Sono convinta che dentro di me esista ancora un piccolo lumino, fioco ma persistente, che vuole incarnare la speranza di un cambiamento. Non nelle istituzioni, cinicamente non credo che possano cambiare così repentinamente, così come non credo nella scomparsa della Mafia come entità. Ma credo nel singolo. E soprattutto nei singoli che mettono insieme le loro idee per diventare una Collettività pensante, di pensieri che pungolano. Per questo sono qui e per questo so con certezza che un giorno ritornerò a casa, con la consapevolezza che forse, se partiamo da noi, qualcosa potrà ancora cambiare.

Gabriella Re

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